Il libretto che stavo aspettando conteneva “il senso della vita”, ne ero certo, o quantomeno ciò che più gli si sarebbe avvicinato. Non sto scherzando, la sinossi assieme a quello che sapevo sul suo autore mi preparavano a un’opera indubbiamente fuori dall’ordinario. Si trattava di un testo tardo di Stanisław Lem (1921-2006) il maggiore scrittore di fantascienza europeo; in realtà già definirlo in questo modo non gli fa giustizia: tolte certe ambientazioni le sue opere hanno ben poco in comune con la stragrande maggioranza dei libri di quel genere. Il fatto è che Lem era tutto il contrario di un intrattenitore: era un pensatore, e aveva deciso di utilizzare il mezzo letterario semplicemente perché il più adatto a far ciò che né la filosofia professionale né la ricerca scientifica gli avrebbero consentito ciascuna indipendentemente, cioè riflettere sul mondo. Il suo Golem XIV (questo il titolo del libro) era una conferenza, naturalmente immaginaria, sulla natura dell’uomo, tenuta da un computer che aveva valicato la soglia della superintelligenza. Cento pagine senza dubbio tra le più alte scritte negli ultimi cinquant’anni, eppure quando mi è arrivato (acquistato usato dall’Inghilterra per poche sterline) e aprivo il pacchetto sapendo di mettere mano su una delle creazioni più preziose che avrei incontrato in vita mia, ho visto che era una copia gettata dalla biblioteca di Liverpool: “discarded” – raramente ho provato come allora la sensazione dell’inutilità del genio, tema d’altronde esplorato proprio in quel testo.
A sua stessa detta Lem è stato poco compreso dalla critica polacca, che tentò vanamente di metterlo in relazione all’ambiente letterario della Polonia del secondo dopoguerra, da cui restava tanto diverso. Eppure dopo aver cominciato a leggerlo (partendo dai titoli più noti: Solaris, La voce del padrone, Ritorno dall’universo) continuavo a sentire sullo sfondo una voce simile e ugualmente alta ma distinta, vicina e lontana, una voce che non poteva evidentemente che essere di un altro di quegli autori d’eccezione che vengono prima sottovalutati e poi usati per fini esterni ad essi: finendo per esser letti contro se stessi, come divertenti scrittori di fantascienza o esempi buoni per lezioni di filologia… Sebbene Lem non fosse in apparenza meno diverso dagli italiani che conoscevo – con le sue storie ambientate in pianeti lontani tra forme di vita post-umana o addirittura extra-terrestre – leggendo le pagine ingiallite di Golem XIV non ho finalmente più avuto dubbi: lo univano a Leopardi non soltanto le solitudini sideree e in esse il risuonare di una voce umana straordinariamente sincera, ma altro ancora. Ad esempio una concezione eminentemente multidisciplinare del letterario: come lo spazio in cui ogni separazione tra immaginazione narrativa o lirica, saggismo e pensiero scientifico non abbia più senso. In altri termini il momento conoscitivo e quello estetico in essi coincidono (nel caso di Leopardi sommandosi a quello etico) ed è inoltre attiva in entrambi l’idea di un “orizzonte comune della conoscenza umana” (esplorata nel dettaglio da G. Pasqualotto e molto diversa dall’universalismo di impronta razionalistica) sebbene esso possa trasformarsi, per Lem e Leopardi, in una vera e propria prigione.
È stato però prima di tutto il ricorrere in Golem XIV di un nodo fondamentale della riflessione leopardiana a colpirmi, quello del rapporto tra uomo e vita, ovvero tra esistente ed esistenza; quando il polacco lo affronta pare riprendere e sviluppare i pensieri dell’italiano: perché viviamo? a che scopo soffriamo? dove ci conducono le pulsioni da cui siamo trascinati? a che fine opera la nostra strumentalità? Leopardi ne trattò in uno dei passi principali di tutto lo Zibaldone, quando scrisse in poche righe strabilianti, una decina d’anni prima che Darwin concepisse la teoria dell’evoluzionismo, che “l’uomo (e così gli altri animali) non nasce per goder della vita ma solo per perpetuare la vita, per comunicarla ad altri che gli succedono, per conservarla. Né esso, né la vita, né oggetto alcuno di questo mondo è propriamente per lui, ma al contrario esso è tutto per la vita. […] L’esistenza non è per l’esistente, non ha per suo fine l’esistente, né il bene dell’esistente; se anche egli vi prova alcun bene, ciò è un puro caso: l’esistente è per l’esistenza, tutto per l’esistenza, questa è il suo puro fine reale. […] il vero e solo fine della natura è la conservazione della specie, e non la conservazione né la felicità degli individui” (4169) Questa era la “spaventevole, ma vera […] conchiusione di tutta la metafisica”: le nostre azioni sono trascinate dall’imperativo di esistere e ogni attaccamento all’io, cioè a quanto abbiamo di maggiormente singolare, non è altro che un asservimento al principio vitale che ci domina sovra-individualmente. Un secolo e mezzo più tardi Lem ritornerà su questo problema portando con sé i risultati di nuovi rami del sapere scientifico: “it is not you” scriverà in Golem XIV ricalcando sorprendentemente dappresso lo Zibaldone “who are served by the passions that you follow, but the continuation of the process which created you” (cit. da Imaginary magnitude, trad. 1984, p. 54); “organisms” aggiungerà “are a shield and a breastplate for the code, a suit of armor continually falling off: they perish so it can endure” (13). Siamo non soltanto destinati alla morte, ma a seminare la morte in un continuo conflitto con altri esseri viventi perché portiamo in noi l’imperativo di trasmettere il codice genetico alla successiva generazione contro ogni ostacolo esterno. Non rappresentiamo perciò altro che trasmettitori e il “senso” della nostra vita è la trasmissione (“the meaning of the transmitter is the transmission”, 17), meccanismo straordinariamente dispendioso, poiché ha funzionato nella storia biologica attraverso colossali ecatombi di tutti coloro, individui e specie, che la lotta per la sopravvivenza ha sconfitto (“creation by destruction as a plan of cosmic technology defies concepts of accident as well as intention”, 122).
Nella riflessione leopardiana ogni considerazione di questa “pulsione alla trasmissione” è collegata al ruolo dell’amor proprio: l’imperativo di esistere ci spinge infatti ad amare noi stessi. A sua volta l’attaccamento al sé ci porta a desiderare infinitamente (è la “teoria del piacere”) e il desiderio continuamente insoddisfatto ci destina a una vita di eterno dolore (affermazioni che coincidono, sia detto per inciso, alle prime due “nobili verità” del pensiero buddhista – Leopardi respinse invece, senza saperlo, la terza e la quarta). È l’individuazione di queste costanti della natura umana che permette di immaginarne l’operare nel tempo, tanto che Leopardi si fa in alcune sue pagine ciò che Lem sarebbe stato in massima misura, ovvero un “futurologo”; accade in special modo in uno dei Canti napoletani, la Palinodia a Gino Capponi, dove si leggono previsioni quanto meno poco rosee ma puntualmente avveratesi: si intravedono infatti i conflitti mondiali (“coverte/fien di stragi l’Europa e l’altra riva/dell’atlantico mar”), l’ininterrotto imporsi sugli altri degli uomini più violenti e aggressivi, in una visione della vita sociale come perpetua lotta per l’affermazione del sé (“imperio e forze,/quanto più vogli o cumulate o sparse,/abuserà chiunque avralle, e sotto/qualunque nome”), assieme a un esplodere della strumentalità tecnica in una moltitudine di invenzioni che lasciano però irrisolti i vulnera di fondo della natura umana, cioè la sua predisposizione a provare e generare dolore (Leopardi immagina l’aereo e addirittura la metropolitana londinese: “da Londra a Liverpool, rapido tanto/sarà, quant’altri immaginar non osa,/il cammino, anzi il volo: e sotto l’ampie/vie del Tamigi fia dischiuso il varco”). Quanto a Lem, egli ha fatto della “futurologia” uno degli aspetti principali del suo lavoro: considerando le analogie tra evoluzione biologica ed evoluzione tecnologica (in Summa technologiae), la possibilità di un incontro con società di intelligenze non-umane, gli sviluppi dell’intelligenza artificiale (tema tra i principali di Golem XIV dove si giunge al punto più alto della riflessione di Lem sull’argomento, ovvero una teoria “toposofica”) e molte altre questioni seguendo le quali si ha ripetutamente l’impressione di ascoltare un fratello spirituale dell’autore italiano.
Tralasciando il problema pur cruciale dell’accidentalità dell’universo, prospettiva che Lem sviluppò per decenni appoggiandosi alle più recenti teorie statistiche ma che sorprendentemente non è assente nemmeno dallo Zibaldone (ad es. 838, 1619 ss., 1791 ss., 4174) un’ulteriore preoccupazione centrale nei pensieri di entrambi è quella per l’antropomorfismo della conoscenza umana. Leopardi ci ritorna spesso quando discute l’idea del bello, sottolineando ad esempio il ruolo dell’attrazione fisica nel determinare la nostra reazione intellettuale alla bellezza, fino ad arrivare ad affermare che “l’intelletto umano è materiale in tutte le sue operazioni e concezioni. La teoria stessa dell’intelletto si deve applicare al cuore e alla fantasia. La virtù, il sentimento, i più grandi pregi morali, le qualità dell’uomo le più pure, le più sublimi, infinite, le più immensamente lontane in apparenza dalla materia, non si amano, non fanno effetto veruno se non come materia, e in quanto materiali. Divideteli dalla bellezza, o dalle maniere esteriori, non si sente più nulla in essi. Il cuore può bene immaginarsi di amare lo spirito, o di sentire qualche cosa d’immateriale: ma assolutamente s’inganna” (1694). La vita spirituale è dunque anch’essa corporea, radicata nei sensi e legata alla pulsione fondamentale all’esistere che ci determina, e se la conoscenza raggiunge una certa universalità questa non può che essere un’universalità umana – determinata cioè da umanissime ossessioni per il dolore, la morte, la sopravvivenza, il piacere, il potere che non smettono di dar forma ai nostri pensieri. Ecco dunque che ci creiamo “illusioni” molto complesse come il fantasma della fama, quello delle virtù, le religioni poli- o monoteistiche, ecc. ecc. pur di non accettare la banalità del dolore e la nostra natura impermanente e inconsistente (“l’universo”, scriveva Leopardi in un altro passaggio famoso, “non è che un neo, un bruscolo in metafisica”, 4174). Lem esplorerà ripetutamente l’antropomorfismo del pensiero, anch’egli in modo spiccatamente anticlericale, costruendo situazioni estreme che illuminano da angoli molteplici i limiti dell’intelletto: come il “contatto” con intelligenze talmente aliene da esserci incomprensibili (Solaris, L’invincibile), il problema della traduzione di un messaggio astrale (La voce del padrone), o la questione dell’interazione con una cultura postumana (Ritorno dall’universo). In Golem XIV finalmente concluderà che “the nonuniversality of intelligence bounded by the species-norm is a prison unusual only in that its walls are situated in infinity. […] You may therefore learn without limit, but only in a human way” (93).
La nostra tragedia – o meglio quella di coloro che si sforzano di guardare il “vero” – è che proprio per la natura (umana) dell’intelligenza siamo portati a uscire dall’umano, a rifiutarlo in quanto fondamentalmente segnato dal male (cioè dal desiderio e quindi dal dolore: è la prospettiva leopardiana) ma anche perché esso inquina il nostro intelletto rendendoci incapaci di conoscere in maniera “pura” (sebbene l’ansia di conoscere sia proprio un’ansia umana). Ogni tentativo di abbandonarlo non può però che fallire: o facendoci ricadere in noi stessi, cioè in ciò che necessariamente disprezziamo, o portandoci ad uscire da noi verso una dimensione dove più nulla avrebbe senso (autoevoluzione biotecnologica). Tanto meno necessario è allora il genio, colui che più di tutti forza i limiti dell’umano come una falena che continui a sbattere contro una finestra illuminata, impresa vana, dolorosa, e soprattutto inutile alle moltitudini che continueranno in ogni caso a seguire gli imperativi del “codice” fino all’ultimo istante in cui esisteranno: “si suol dire che lo spirito umano deve assaissimo” scrive Leopardi “anzi soprattutto, ai geni straordinari e discopritori che s’innalzano di tanto in tanto. Io credo ch’egli debba loro assai poco, e che i progressi dello spirito umano siano opera principalmente degl’ingegni mediocri. Uno spirito raro, ricevuti che ha da’ suoi contemporanei i lumi proprio dell’età sua, si spinge innanzi e fa dieci passi nella carriera. Il mondo ride, lo perseguita a un bisogno, e lo scomunica, né si muove dal suo posto, o vogliamo dire, accelera la sua marcia” (1729). Colpisce francamente che dalla penna di un poeta cosiddetto “romantico” esca un tale ridimensionamento del ruolo storico del genio, altra prova di quanto Leopardi sia riuscito a travalicare la cultura del periodo per affrontare quell’“orizzonte umano della conoscenza” di cui si parlava in apertura. La natura, affermava Lem da parte sua, funziona secondo “medie matematiche” e sono gli scarti tra specie che le interessano ben più che le differenze interne a una stessa specie, sempre trascurabili dal punto di vista evolutivo: “what I mean is that it is better to be an ordinary man than a genius chimpanzee” (63). Qui è il computer che parla, Go-Lem, ma l’assonanza al nome dell’autore non può sfuggire: attraverso la sua voce digitale Lem ritorna a riflettere su ciò che lui stesso ha provato al ritrovarsi rinchiuso all’interno della propria natura; no, forse il dolore del genio non proviene dalla sua solitudine in relazione al resto della propria specie – lo stesso Leopardi concluse la sua vicenda artistica con versi dove espresse una straordinaria empatia verso un’umanità che aveva compreso tanto a fondo; la solitudine del genio è forse un’altra, quella che egli prova quando cerca di guardare al di là dal vetro, dove una luce bianca e priva di alcun senso lo accieca col suo silenzio, imponendogli di tornare indietro ed essere quel poco che egli vorrebbe rifiutare e che nondimeno solamente è: un uomo.